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Il Piccolo Grande Zen

Quando i grandi si ammalano l’è un affar grande. Il piccolo grande di casa fidicina ha avuto un terribile virus che lo ha prima aggrappato di notte alla mamma, sul cui seno ha profluso fiumi di vomito e di lacrime, poi la ha aggrappato di giorno alla sua Fata Tata, per poi tornare a staffetta tra le braccia di maman. In un andirivieni di febbre altissima, in un lungo e unico sguardo malinconico abbandonato e terribilmente strappacuore e in ondivaghi e occasionali tornado di rabbia incazzata da piccolo tiranno in carriera quale è. Ma lui è bellissimo, meraviglioso e maman persino se si brucia le labbra se lo bacia ripentendogli il mantra ”diocomeseibello, diocomeseimeraviglioso”. Che uno deve pure investire in psicanalisi, no? Vogliono assicurare un paziente al futuro, i fidicini. Lunghi cavalloni di febbre alta, notti di grida e scene apocalittiche su e giù per il corridoio e un cero acceso a santo Nurofen, sempre sia lodato.

Finché è finalmente arrivato il giorno in cui il Piccolo Grande è uscito di casa per andarsi a conquistare il suo certificato di avvenuta guarigione. Una mattina di quasi primavera in anticipo, i due si sono avviati verso una nuova dottoressa. Per la strada si sono persi, si sono fermati, sono tornati indietro e sono riandati avanti. La mamma aveva scritto male l’indirizzo, ti pareva, troppo impegnata quella a baciarsi il figliolo per trascrivere un numero. Per cercare la pagina della dottoressa nuova maman ha posato per terra il figlio, il quale figlio lei ella mamma lo tiene normalmente in braccio come un campione olimpico tiene in mano la coppa, e con simile sguardo di trionfo se lo bacia – che una volta la gente si rinchiudeva per molto meno. Nel momento del distacco dei due è avvenuta la prima carambolata della mattina, mica la Pimpa col cane Tito, che non siamo a casa di Armando qui, siamo in una capitale piuttosto trash dell’Europa ricca.  I due stanno sul marciapiede quando un temporale vocale li agguanta da lontano: un signore in là con gli anni cammina seminudo urlando a squarciagola frasi incomprensibili, per di più l’urlo lo soffoca, gli gonfia gli occhi e gli dona un colorito tra l’aragosta e la ferrari, ma lui prosegue e il grido si fa sempre più forte, straziato e pericoloso.

Il Piccolo Grande si spaventa, la mamma smarrita non lo aiuta ma forse lo incoraggia con uno sguardo, con due parole sottovoce non preoccuparti, è un signore un po’ mattarello e lui in qualche modo lascia la paura, risale a trofeo sulle braccia di maman e, con la saggezza zen dei suoi non ancora tre anni, lo guarda e mentre quello si allontana si esprime

– Il suo papà era un tato cattivo. Essì.

Italiana, lei?

Che maman non ce la fa piu’, le casca la stanchezza dalle mani e poi le si riappiccica anche addosso, che quella rimbalza, mica si stacca mai. La stanchezza, non maman. Aumenta, cresce, fa peggio dei debiti, che poi anche loro. E quindi ci sono stati momenti più allegri di questa vita fidicina del 2014. Però si va avanti, dalej dalej, dice la coscienza, e crede in un panta rei che prima o poi farà arrivare il bene come fanno i tartari, che arrivano. Arrivano.

Inoltre, per migliorare le notti insonni, per alleggerire il peso degli antidepressivi da casalinga, alias carboidrati, burro e cacao, per smuovere le acque, il sangue e le lacrime, maman ha rivoluzionato la sua vita con un costosissimo – e in tempo di debiti pare sia la miglior cosa – abbonamento in palestra.

Uno dei primi giorni si presenta, entra sicura nello spogliatoio, si spoglia, infila tutte le sue cosine dentro un armadietto, cerca di dimenticare l’atmosfera da prigione che pian piano la piglia alla gola, non guarda le donne nude che le girano intorno e che chiacchierano e ridono asciugandosi i capelli completamente ignude – e mettiti almeno le mutande che con tutte quelle cicce mi spaventi lo stomaco e poi io sono una ragazzina di provincia, a me la nudità m’è una cosa intima, mica uno può stare pelo al vento e parlare dicché si fa stasera, per lo più in tedesco, madonna, anche voi, sembra di vedere il Duomo che racconta le barzellette all’Opera e poi se ne vanno a passeggio insieme sulla Spree. Maman ce la fa, sa di farcela, basta raggungere la sala Uno e abbandonarsi al Body Art, chell’è una ginnastica bellina, solo che le han dato un nome che nemmeno la Gemaeldegalerie, anche voi. L’armadietto si dovrebbe chiudere con la carta, che ormai le chiavi sono roba vecchia peggio di carta e penna, è tutto magnetico il futuro. Figurati, non c’è più nemmeno la ginnastica, ormai si fa Body Pump, o Body Art, che uno si chiede quanto scarsa sono io? Pump no, non ce la farò mai. Art, forse, sa di museo, di roba antica, va bene per me. Facile, passi la carta e lui si chiude. La carta passa, ma lui non si chiude. No, non c’è verso, non si chiude. Mamam prova e riprova, nulla. E non va bene, comincia a pensare, non va bene che le cose facili diventino difficili, è un principio sbagliato, pericoloso, non va bene. Un armadietto si apre, si chiude, è un armadietto, non è difficile. Prova ancora, prova dall’altra parte. Sistema meglio la roba dentro. Nulla.

Puttanalamadonnatroiacane! dice, infine, in uno splendido endecasillabo che fa sì che l’armadietto immanentimente si chiuda.

Ah, italiana, lei? le chiede in un unico lungo sorriso la vicina.

Quando uno dice ”una figura di merda fatta per bene”, eh? Evvài, andiamo ai’bbodiàrt.

Chissà

Che noi, noi tutti, la prima cosa che dovremmo fare è riconoscere loro la fatica. Fare un passo indietro, come si fa per inquadrare meglio un’immagine nella macchina fotografica che a occhi aperti ci sta tutta, ma poi nel mirino no e allora tocca fare un passo indietro per inquadrare quel che davvero c’è da guardare. Ecco, perché a volte il cuore è di questo che si nutre, di un’inquadratura speciale di cui ha bisogno. Noi tutti, perché ciascuno di noi è o è stato prima di tutto un figlio. Eh, un figlio. Ci sono, fra di noi, quelli che diventano genitori e si trovano dall’altra parte, allora per loro forse diventa più semplice inquadrare, anche se lo fanno in ritardo.

Cominciare la giornata riconoscendo loro la Fatica. Perché quando un genitore c’è è una montagna di fatica che non ce la fa a stare insieme per la stanchezza, è un rischio di valanga che nella maggioranza dei casi, per fortuna, si contiene. E persino contenere la slavina è un atto di fatica. Prima di ciascuna azione dovremmo riconoscergli questa fatica, perdonare loro la stanchezza. Che ci sono i genitori stronzi, certo, ci sono anche quelli matti, quelli che è come se non ci fossero mai stati, ma in quel caso i problemi sono altri e c’è tutto un secolo di psicanalisi che se ne occupa. Anzi, quelli sono le primedonne del pensiero, saranno le Wande Osiris che scendon dalla scala, e stanno lì, a far bella mostra di sé, non è la fatica che gli rallenta le gambe. I genitori stronzi rimangono sotto la luce di un riflettore che li guarda, son vestiti di paillettes e non si fa che parlare di loro. Male magari, ma se ne parla e se ne discute per arrivare a un perdono di cui loro nel migliore dei casi si giovano. Anche di quello, si giovano. Perché quel confine tra valanga e montagna accade quando le cose van bene, quando tutto va bene a noi figli e allora ci permettiamo di dimenticarci la riconoscenza. Come metter lo zucchero nel tè. C’è il tè, c’è lo zucchero, Buono. No, non è buono per nulla, perché prima di tutto Grazie, poi Grazie e poi ancora Grazie. Grazie per il tè, Grazie per lo zucchero e Grazie per il tempo di berlo, che senza quei tre Grazie non vien fuori nemmeno il Buono.

E questo dovremmo fare, come i carcerati che si tatuavano Mamma sul braccio, chissà che nel silenzio di una colpa l’essere umano non si ponga le domande giuste, non faccia ordine dentro di sé. E già li sento quelli pronti a accusare i genitori di esser un casino per colpa loro, bravi, complimenti, il casino è tutto vostro, così come l’ordine, perché persino le colpe e i meriti di quel che accade dentro rimangono dentro.

Cominciassimo tutti dal riconoscere che esser genitore è una fatica ai limiti delle forze. Perché un genitore, quel pover’uomo, convive con un senso del tempo infinito e se non sta attento ci affoga e poi fa glu, sparisce, solo che siccome è sparito dentro se stesso non ha nemmeno il riconoscimento della gente intorno a lui che lo cerca. Lui sta sempre nel mezzo, sta di fianco, sta di lato. Scende dal treno, si presenta in ufficio, sale le scale o entra in un supermercato eppure è scomparso, affogato nella stanchezza. La stanchezza di non sapere quando la sua giornata finisca e quando cominci, che la giornata di un genitore non comincia la mattina al risveglio come quella dei figli, comincia la notte, se uno dei figli lo sveglia. Ma non comincia nemmeno allora, comincia la sera prima a cena, quando deve controllare che tutti abbian mangiato perché non si sveglino perché han fame. Ma nemmeno a cena comincia, perché quella cena deve esser stata messa in tavola, e ci deve essere una tavola e a tavola si devon dire cose divertenti – il genitore deve esser sereno, a tavola ci deve esser posto per tutti – il genitore deve aver creato lo spazio. Comincia facendo la spesa per la cena? No, perché la cena si fa con dei soldi nel portafoglio. Comincia a lavoro quando si lavora per uno stipendio? No, perché al lavoro ci si arriva dopo aver studiato o dopo aver chiuso quella finestra e aver deciso che no, che non è il caso di saltare di sotto. Perché dentro la suola delle scarpe, o tra le dita dei piedi c’è sempre quel dubbio di farcela o meno e a ogni passo lo si schiaccia, lo si sollecita. Per lo più si va avanti, ci si risponde che Sì, ci si fa.

Quando comincia la mia giornata? Quando finisce? Queste son le due domande che un genitore non dovrebbe mai porsi perché fanno l’effetto di una spinta alla schiena davanti a un burrone, e ci si casca. Poi che la spinta, il burrone e il senso del vuoto siano cose tutte interne non importa, perché il male è vero, la paura è vera, anche se sta nella metafora. Che è vero che il tempo è infinito per tutti ed è lughissimo e speriamo non finisca mai, ma sapere che una giornata finisce è un principio di equilibrio. Perché quando poi sta nell’autobus la mattina e vede che la gente intorno a lui, a lui genitore, ha avuto il tempo di guardarsi allo specchio, lui si rende conto che invece no, che invece lui non lo ha fatto e per fortuna che le scarpe non sono spaiate, perché i calzini lo sono di sicuro.

Se poi quel genitore ha in mano il libro di Francesco Piccolo, che è anche un bel libro, ma l’autore non fa che definire la madre ”una donna superficiale” come se non fosse che una frase, anzi, dice che le donne in quel modo gli piacciono, che va bene così. Piccolo brutto stronzo egoista, ma cosa ne sai di cosa voglia dire essere mamma. Vuol dire che sei stato la priorità di questa donna per ciascuno dei suoi giorni e che se è ancora viva e hai la fortuna di poterle telefonare perché da qualche parte è pronta a risponderti lo sei ancora. Sei la sua prima preoccupazione, il suo primo e il suo ultimo pensiero in quel tempo infinito dell’esser genitore e cosa fai? Ti permetti di giudicarla da un suo gesto? Ma invece di ringraziarla, Piccolo gigantesco stronzo che non sei altro. Tutta la vita di una donna riassunta in un giudizio che sa di cianuro. Che il primo pensiero di un genitore è questo e è un pensiero di rabbia, perché persino la riconoscenza va insegnata loro, che nessuno nasce e dice Grazie. E un genitore stanco, che il genitore è sempre stanco, reagisce con rabbia in quel lì per lì in cui osserva una distrazione, finché non arriva l’ennesima diga che gli scoppia dentro e anche se sta sull’autobus ci sprofonda e comincia a piangere. In lacrime e con i calzini spaiati. Per questo certi libri non si pubblicano, cara Einaudi, certe cose non si scrivono, pure lei, cara signora Casa Editrice avrà avuto una mamma. E crede che la sua mamma avrebbe avuto piacere di esser definita dal figlio ”una mamma superficiale”? E la fatica, la stanchezza? In quella sua profondissima quiete di figlio profondo che fa, la riconosce? Uno per la stanchezza capita che esca di macchina, chiuda lo sportello e che non senta l’auto che arriva, o che non la veda, o che si sia dimenticato di esser per strada perché non ce la fa più e poi quella macchina che lui non sapeva nemmeno che ci fosse lo prende, gli rompe un braccio, una gamba, capita che gli faccia male e allora che cosa fa, il profondissimo figlio scrittore? Vorrà delegare il genitore a un incapace? Uno che neanche sa scender di macchina? E cosa farà? Lo infilerà in un libro in cui parla di sé senza avere un granché da dire, senza che quel che lui pensa sia condivisibile da nessuno che vive al di là del suo villaggio e allora giocherà il colpo dell’ironia parlando male di un genitore. Bravo, complimenti. Se la fatica di esser madre si potesse quantificare in fogli di carta allora con un giudizio del genere li si brucerebbe tutti, un bel Fahrenheit di cinque minuti. Un falò. Chiuso per cessata attività. Lei, come mamma, ha fallito, per superficialità.

Complimenti caro Piccolo, e grazie. Lei in una sola frase ha datto vita a tutti i mostri della paura, questo fanno gli scrittori, per questo si legge, per pescare le rane marcite dentro di noi, per condividere degli argomenti su cui indagare. In quel che lei dice c’è il terrore numero due di ciascun genitore. Il numero uno è la nostra salute, la nostra vita, perché la regola dell’esser genitore è non sopravvivere ai figli, mai. Il numero due è il senso di tutta questa fatica e il suo giudizio di figlio fa da detonatore a tutto un domino di paure. Perché il senso di colpa sta in agguato come un gufo sulla spalla, tiene gli artigli ben piantati tra le clavicole. E ciascuno di quei terremoti che gli erano scoppiati dentro prima di un Sì o un No gli ritorna a galla e ci affoga.

Quel gufo sulle spalle della responsabilità è la fatica più grande, fa sì che ogni qualsiasi nostro minimo gesto non valga mai, per loro, in un tempo finito. Mai, ciascuno di quei loro piccoli gesti, allacciarci una giacca, risponderci Sì o No, dare indicazioni per telefono o chiudere una porta. Ci inchinassimo di fronte alla diga che si schiude ogni volta dentro di loro, ogni volta che ci hanno risposto Sì o No. Un monosillabo che dura il tempo di un secondo, eppure dietro quel secondo c’è una diga che si schiude dentro di loro e noi che ne sappiamo, noi egoisti, noi tutti gonfi del nostro mondo vediamo solo quello e stiamo lì in attesa di quel sì, il sì che ci sembra la sola giusta risposta e abbiamo pure il coraggio di alzare le spalle se non lo otteniamo. Noi siamo animali storti, piegati dal peso del non capire, camminiamo tutti tronfi, convinti di procedere impettiti e invece di farci stringere il cuore dal bivio a cui li poniamo ci permettiamo persino un giudizio, quando non la disobbedienza.

Ecco, cominciassimo invece dal riconoscere loro la stanchezza, parlassimo con un tono più basso, stessimo zitti, ascoltassimo. Chissà.

 

 

Buon compleanno

Compierne 35 quest’anno è stato come rientrare a casa dopo una spesa durata tutto questo periodo. Tornare a casa coi sacchetti pieni e svuotarli sul tavolo. Come si fa solitamente con la spesa, che si mette tutto sul tavolo e poi pian piano quel che va in frigorifero scompare da lì sopra, la verdura si sistema con la frutta a centro tavola e quel che va nella dispensa viene messo via, quel che si cucina subito si mette sulla stufa e le patatine, già, se ci sono delle patatine si aprono e si mangiano in piedi, sistemando. Ordine. Quell’ordine che ciascuno considera il proprio margine di equilibrio e che è il terreno su cui si appoggia, con lo sguardo, con il cuore, con tutto se stesso. Per fare ordine si prende in mano quel che crea disordine e lo si ricolloca, lo si sposta, spesso lo si butta via.

Quest’anno sei rientrata a casa e hai guardato quel che avevi raccolto, quel che avevi. Lo hai portato su per le scale, lo hai appoggiato in terra cercando le chiavi e hai aspettato un momento in cui in casa non c’era nessuno per rovesciare tutto, per guardarlo. Che non era una spesa ben fatta lo avrebbe visto chiunque, si vedeva a colpo d’occhio che era un disequilibrio evidente, una specie di casino. Non era una spesa fatta bene, non era terribile, non c’era nulla di pericoloso, non c’erano debiti né scocciature, ma non era una spesa fatta bene. C’erano troppe mele, davvero troppe, e che ci fai con tutte queste mele? Nemmeno stanno sul tavolo che rotolano da tutte le parti. E allora viene in soccorso l’esperienza, perché in 35 anni non hai soltanto accumulato oggetti, ma hai anche imparato a fare tante cose, ci sono stati periodi in cui alle persone vicine scappava il nesso di una tua deviazione, ma seguivi un istinto che era giusto e infatti dopo ti è ritornato utile quell’aver deviato per imparare qualcosa, per capire qualcos’altro, spesso era il cervello, che è una macchina complessa, è capace di correre velocissimo come di piantarsi nel traffico e creare un ingorgo o inchiodare sull’autostrada e spaventarti a morte, lo devi conoscer bene, è un meccanismo che nemmeno si vede, non si tocca, eppure è onnipresente, pure a sbucciare una mela è lui che ti aiuta, che fosse per te sceglieresti il coltello sbagliato, persino. Adesso tutte quelle mele si possono dividere, sai come farlo, sai perché farlo, alcune le preparerai su un piatto per mangiarle così, altre si possono cuocere, con altre ancora si fa un kompot, alcune le si regala al vicino che è così gentile, altre si mettono sul tavolo e magari si cuociono domani. Le mele non sono un problema, forse per quello ne hai raccolte così tante. Però i pomodori, i pomodori si sciupano più in fretta e per fare una buona pomarola servono anche gli odori, ci sono gli odori? Ecco, chissà se hai preso dei buoni odori, chissà se mentre facevi questa spesa eri distratta o se invece sapevi che una volta a casa avresti fatto la pomarola. Prevedere, pensare al futuro, seminare, aspettare. E a cercare gli odori troverai altre cose, cose utili come la carta igienica, buone come una bottiglia di vino, ma una sola?, il sale, il caffè, cose inutili come le quantità eccessive di sapori forti, o inutili come una sola fragola. Perché hai preso una sola fragola? E poi siediti, siediti al tavolo di casa tua, ora che puoi stare in silenzio, prendi quella sola fragola in mano e cerca di ricordare da dove venga quella fragola, quella sola unica fragola. E di’ che no, che non hai idea da dove venga; ma dittelo con leggerezza, perché sono così tante e così frequenti le cose che non capisci di te stessa che ci vuole un cancello aperto sui dubbi per poter convivere con tutte le parti di te e lasciar loro il tempo di fiorire, o di appassire.

Vabbè, buon compleanno.

 

 

Sulla festa della mamma oppure, e piuttosto, sulla nascita di una colorita espressione

Cara maman,

oggi è la festa della mamma, in generale, ma parlo con te perché so bene, me lo ricordo sai, so che tra poco sarà anche il tuo compleanno quindi per te è una festa doppia, e vorrei augurarti che sia davvero una gran bella settimana. Ricca e piena di maternità. Ecco, è per questo che ti scrivo. Mi ricordo, sai, di quanto la tua mamma voleva che dentro quella sua grande pancia ci fosse una femmina, di come lo sperava anche se faceva finta di esser sicura che così fosse. E poi era così felice quando le han detto che sì, che eri proprio una femmina. Pensare che quello era persino il giorno della festa della mamma, perché la tua mamma era un po’ come te, una che sceglie le strade più complicate, che mette un gran casino di cose al fuoco, ma quando poi i risultati vi tornano son sempre grosse emozioni, una mia amica di Palermo direbbe ”belle cose, belle cose’. Proprio belle cose, sì. Essì. E quindi sei nata per la festa della mamma e sei stata il suo regalo. Ecco, so anche che poi lei, a un certo punto, un po’ prestino in effetti, lei con quel regalo non ci ha più fatto granché, perché è morta. E proprio quando anche te stavi per diventare mamma. E vabbe’, avrai imparato ormai a non soffrirne, no? No, eh? Ma dai, sappi che non lo ha fatto perché eri una roba rotta che non funzionava più, no, non è per questo che ti ha lasciato da qualche parte, che si è dimenticata di come ridevate insieme da farvi venire le lacrime e poi correvate in bagno a fare la pipì che rischiavate di farvela addosso, poi il bagno era sempre uno solo e te arrivavi prima, litigavate e lei ti diceva ”madonna, che carogna che sei, a una vecchia mamma”. Vecchia, le mamme queste cose le dicono un po’ così, che lei vecchia proprio non era, avrà avuto sì e no 40 anni. Devi perdonarci, noi quassù abbiamo un sacco di casini da risolvere e capita che se uno sta troppo zitto, se uno non si lamenta abbastanza, ecco, noi ce lo dimentichiamo. Siamo distratti anche noi e siamo pochi, l’è un’azienducola di famiglia e quello lassù è un despota che tocca sempre ascoltarlo, tu sapessi che fatica che fo. Però ti guardo, e ho visto che per te esser diventata mamma è stato complicato proprio perché avevi bisogno di colmare quel buco. Non ne hai fatta passare nemmeno una di feste della mamma, nemmeno una. Avevi paura di piangere, di stare male, di prendere un mitra e fare una strage di figliole sorridenti coi pacchetti in mano? Avevi paura di comprarle un vestito a pois, poi farlo a pezzi coi denti e masticarlo? E allora ti sei fatta festeggiare, che in quella prima festa della mamma senza la tua mamma la mamma eri già diventata te. Complicato, persino da raccontare. E quindi lo sei proprio voluta diventare nonostante ci fosse dentro di te quella gran paura di piangere, ma te sei una testona e le paure le affronti di petto, no? Magari a occhi chiusi, ecco. Però le paure rimangono anche più salde quando non si guardano, sai? Lo vedo che sei sempre lì a leggere di queste cose, e la Hope Edelman, brava lei, eh? Anche a me piace tanto, che io pure sono una mamma senza mamma, eh? E pure io sono stata una figlia senza mamma. E poi Alina Marazzi anche ti piace tanto? Bravissima, hai ragione. So anche che quando vedi una mamma che sta male, una mamma di quelle che la vita se la tolgono perché si sentono sole, sole e basta, ecco, lo vedo che ti commuove tanto. Lo so che hai paura del suicidio. Perché è vero, ci sono dei momenti di buio in cui i figlioli non bastano, credevamo, ma invece non funziona. Però tu sei brava a esser con loro, sei stata brava a ascoltarli, a accoglierli e a venir dopo alle loro esigenze, che questo fa una mamma, una mamma viene dopo, sempre. E ti vedo che sei capace di esser felice, brava. 

Quindi va tutto bene, carina, va tutto bene e puoi andare avanti. Il regalo è per te come mamma, ma anche per loro che sono i tuoi tre pargoli, perché vi sentiate uniti e simili. Perché la sorte, per una mamma, è sempre comune a quella dei suoi figlioli.

Buona festa,

M.

ps. Non per eccedere in autoreferenza, ma guarda me, guarda che lavoro mi tocca fare per aver avuto un figliolo come ho avuto io.

 

– No! Topi è pieno di pidocchi! E adesso arrivano le bimbe e si riempiranno anche loro. E io? Con questa cofana di capelli? Puttana la Madonna troia! 

Ja

In questo weekend in cui la sorella grande canta coll’amichette sua loro quattro sono rimasti insieme. Loro quattro, ossia la sorella piccola, il fratello topino e il cane principesco Morfeo, più la mamma, poveri loro. Capita che si rincorrano, che scherzino e che si facciano gli agguati. La sorella piccola e anche scimmia gioca a acchiappino con la mamma, e ride, perché la mamma non l’acchiappa. Solo se le fa le facce buffe e la fa ridere, allora, nel suo metro di elastica e ghepardesca velocità lei si distrae, ride, e la mamma la sopraffà.
Soprattutto i due fratelli si fanno i dispetti e lei, che è più grande, fa arrabbiare lui, che è topino e piccino. Di fronte al principe del labbrino arrabbiato, la mamma non resiste e interviene col mantello di Zorro.
Che faccio? La picchio? Chiede al Principin de’ Topis
Ja. Risponde lui, serio come rispondeva Serse von Ribbentropp in guerra, all’ufficiale di comando.
E le due si rincorrono, e ridono, e poi si prendono e giù a farsi il solletico finché una non implora pietà all’altra.
Finché, non appena ripreso il fiato, la giovincella bionda si rialza e un po’ affannata dice la sua,
Oh, mamma, mai una volta che dica ‘nein’, eh?
E il cane? Il cane dorme.

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La Lacoste e il tempo lungo

Capita loro di stare insieme, capita loro ben di rado purtroppo, perché in questo caos fidicino c’è sempre un dialogo che rischia l’isteria perché a più voci. Ma, quando capita, loro due colgono l’attimo e non fanno in tempo a stupirsi di quella sospensione della normalità che è già un profluire a valanga di cose che avevano da dirsi. E poi quello era un giorno speciale, un giorno di maturità, perché era appena arrivata una lettera importante dove le confermavano che era stata presa al liceo francese, ullallà. La bambina conta già tre lingue al suo vocabolario decenne e quindi perché non fare il salto alla quarta e al liceo. Un salto nel tempio laico, anche se vagamente eletto, dei contenuti e delle nozioni, così pure la sua mamma è contenta e la smette di inveire contro le maestre che le insegnano le canzonette del cazzo di Sanremo e fan far loro i progetti e i cartelloni, invece di abituarli ora, ora che son piccini e che per questo è il tempo di farlo, al tempo lento dello studio per apprendere, per trasferire i contenuti dai libri a sé stesse e incontrare il piacere di imparare le cose, finalmente una scuola dove ci si preoccupa di insegnare e non di divertire, e c’è pure un esame di ammissione gentile, simpatico, ma insomma difficilissimo, e lei è stata presa, urrà.

Si sono trovate sole all’improvviso, non si erano nemmeno rese conto che avrebbero avuto quell’ora tutta per loro, non avevano nemmeno fatto in tempo a programmare uno straccio di canovaccio di argomenti, di litigi, che so, di cose da chiarire. Nulla. Che qui siamo sempre di corsa, e la scuola, e la valigia e il cellulare, e il caricabatterie, dov’è il caricabatterie? Non lo so, ce l’avevi te. No, io te l’ho dato a te. Non è vero. E vabbè, non si trova, né si troverà, almeno finché serve, che questo è il triste destino degli oggetti utili in una casa di distratti. E pace, andrà in gita con il suo coro di ragazzette che cantano canzoni meravigliose – mica quelle cacate che ti fanno fare a scuola, mamma… e la guarda facendole capire che la smetta, sì, che per favore la smetta, perché lei ai suoi insegnanti, per quanto incapaci, lei gli vuole bene, piccinina e li difende dalla mamma ipercritica insopportabile – senza telefono, che si diverta senza stare a rispondere a noi che le si rompe solo le scatole.

– Mamma, ho bisogno di magliette.

– Ah, e… che, ora? Parte l’autobus alle cinque, proprio ora ti servono?

– No, dai, mamma, non ora, così, dico in generale. Che sembra sempre che la mamma cada dalle nuvole e lei le risponde quasi sempre con grande affetto e con pazienza, quasi la riagguantasse un attimo prima di cadere davvero.

– Ah. Riagguantata. in effetti è vero, non ti sta più nulla.

– Eh.

– E va bene, quando torni si va a comprare una bella Lacoste! Che dici? Che la mamma adora le Lacoste, sono belle, sono colorate, non si stirano e sono sempre nuove, poi hanno colori fantastici, solo all’idea di comprare una Lacoste maman si illumina. Dai! Una bella Lacoste fucsia! O blu! Così poi la passi alla tua sorella e poi al tuo fratello e ci rimane in casa una decina d’anni, wow. 

– No, mamma, dai.

– Come ‘dai’? La vuoi azzurra? Verde!!

– No, vorrei una di quelle magliette che vanno di moda ora.

E qui la ragazza cade in quella mancanza di strategia che le porta in dono la giovine età, perché introdurre a maman il concetto di ”moda” è come invitarla a mangiare una bistecca, lei ch’è vegetariana dai tempi del congresso di Vienna, le si alza il naso a quella, le si storce e le viene fuori un odore di snobberia che farebbe impallidire un nobilaccio di campagna, quasi la si savonarolizza e si sta sulle palle da sola, ma non è colpa sua, è l’idea di moda e di fregatura e di massa e di spazzatura che la fa fatica e l’obnubila, qualunque cosa voglia dire.

– In che senso di moda? Che la compriamo adesso perché ce l’hanno tutti ma invece pensi che non ce l’abbia nessuno e poi tra sei mesi finisce nel cestino perché non ne puoi più che ti è venuta a noi? E trasformiamo tutto in spazzatura, urrà al consumare.

– No, dai, mamma, non di moda che la ragazza conosce il pollo suo e quindi si ravvede e la guarda col suo sguardo del tipregosmettila e cerca di contenere la valanga. Sono delle magliette di cotone, ma di un cotone più fine che sembra quasi trasparente

– Trasparente? Alla tua età?

– no, dai, mamma, non sono trasparenti. E poi sono colorate, di colori belli, forti.

– Oddio, che colori?

– Tipo quei giacchetti da ciclista

– FOSFORESCENTI? Buona, che mi gira la testa, la mia figliola si vuole mettere una maglietta trasparente ma fosforescente… svengo, portatemi i sali.

E lei ride, ride. Perché la mamma la fa anche ridere, quella mamma che in verità è serissima nei suoi argomenti, però cerca di prendersi per il culo da sola e la cosa qua e là le riesce vagamente divertente. Quindi ride, la bambina multilingue, e cerca di riagguantare la mamma che è già lì che spippola sul telefono alla ricerca di una mail che le confermi l’orario di partenza del bus, che le è venuto il dubbio di aver sbagliato orario, posto e persino anche giorno… Mamma. Perché lei lo sa che la sua è una mamma diversa dalle altre e che ci vuole pazienza, ogni tanto glielo dice anche. La sua è una mamma che non le fa guardare la televisione e che se si deve andare in un posto si sceglie sempre il modo più complicato, ma poi anche divertente, perché si incontrano un sacco di persone anche strane e si parla e si ride, è una mamma che invece di portarla al cinema le fa leggere i libri e quando lei cerca di fare qualcosa di veloce la mamma spalanca gli occhi e le dice che il tempo è bello che sia un tempo lungo, mai breve, che i piaceri bisogna coltivarli pian piano per goderne davvero pienamente e quando lei vuole, che so, guardare la tv, la mamma le parla dei semi che si piantano e poi si dà l’acqua e pian piano cresce un fiore. E’ una mamma che fa tutto in casa, ormai anche il kebab, e che quando fa le torte sono torte a tre piani e le dispiace di non aver usato le uova delle sue galline, e a volte glielo dice anche quanto sarebbe bello avere un pezzetto di terra con qualche gallina, che il suo nonno ce le aveva, in giardino, le galline. ”Be’ perché te non sei come tutte le altre mamme di classe mia che non fanno prendere i neonati in braccio alle sorelle’‘. ”I neonati? Oddio, non lo fanno? E perché non lo fanno? Certo che se cade si rompe, è vero, ma insomma basta stare attenti, basta stare lì con voi. Tenere in braccio un nanetto appena arrivato è un bel gesto di affetto, perché non farlo fare? Oddio, però forse mi sbaglio, mi sono sbagliata e non andava fatto, dici che ho sbagliato, che non dovevo? Ti è cascato il tuo fratello e non me ne sono accorta? Questo mi vuoi dire??” E dai la valanga, ”no, no, mamma, hai fatto bene, davvero, io sono molto contenta di aver tenuto topino in braccio”. Arrivate, con un anticipo di 16 minuti, roba frequente e prevedibile come un 13 alla schedina. 

 – Mamma,la maglietta.

– Dimmi.

– È un cotone leggero, bello, che si vede attraverso

– Ah! Ma dici come la mia maglietta di Orione?

– Che c’entra Orione mamma, Orione è un libro.

– E vabbè, ma io ho anche la maglietta, anzi ormai è l’unica che ho, quella che mi portò lo zio da New York una vita fa, quella bellina con Orione sopra. E, ecco, ho capito che tessuto dici, e ci sta che vada di moda qui oggi, se andava di moda in America sei sette anni fa, avran dei fondi di magazzino da smerciare, lo fanno anche con le medicine figurati se si risparmiano di farlo coi tessuti.

– Mamma, ma che dici? Cosa c’entran le medicine? Io voglio una maglietta.

– Ma una bella Lacoste?

– Va bene mamma, e scuote la testa rassegnatissima, mi piacciono le Lacoste.

 

 

Test di grullaggine mamma

Quali le accessorie meraviglie che possono succedere ad una grulla con pargolo duenne che s’è chiusa fuori di casa?

a) che la sia in pigiama, tanto esco un secondo

b) che la indossi un paio di scarpe non sue, e di 8 numeri più grandi delle sue

c) che le scarpe siano fucsia

d) che il pargolo abbia la bronchite

e) che il pargolo abbia, oltre alla bronchite, la febbre

f) che il telefono suo cellulare per eventuale chiamata di soccorso sia rimasto in casa

g) che la custodia di sopracitato telefono contenga anche il portafoglio, e quindi che ella non possegga un euro che sia mezzo, che so, per un caffè al bar

h) che il fratello che doveva essere a casa proprio allora, abbia colto un invito al bar delli ragazzetti amici sua, li mortacci déli ragazzetti dellicèo

i) che al di là del sole splendido minacci di piovere, improvvisamente

l) che la grulla si trovi sotto lo sguardo incrociato del figlio duenne, mamma, ma perché un si entra? Che io ci avrei pure freddino, e quello del cane, il quale sbadigliando di là dal cancello la guarda chiedendosi la stessa cosa, più o meno, ma perché questa bischera la sta in piedi lí in mezzo alla strada? O perché non la entra cosí entro anche io e me ne vado sul divano?

Se avrai raggiunto l’anplèn con dieci sì, viva! Il bambino aprirà la bocca, esprimerà il proprio urgente desiderio, dirà la sua principesca verità e coronerà con le sue sante parole questo marzolino momento del coglione. Della mamma, cogliona.
E cosí fu che infatti il pargolo si espresse,


– Mamma? Cacca.

Nevica

neve

Essí, sembra proprio di esser dentro una favola. Ha chiosato maman, di mattina e a voce alta, uno sguardo disperato della tata Tina, la quale davanti all’ennesimo giorno di neve di merda scuoteva la testa. Non se ne puó più invece, basta. Va bene cercare di interpretare con ottimismo, ma c’è anche un limite e qui il limite si travalica. Questa attesa della primavera è uguale all’attesa di capire una frase in ungherese: infinita. Però che c’entra, lei nell’ungherese non ci ha mai sperato. E il fatto che se riuscisse a capire qualcosa le verrebbe dentro un godimento tipo da tulipani in fiore non vuol certo dire che le cose debbano accadere secondo il medesimo ritmo. Peró su Fidicinlandia questo è il tempo laborioso dell’educazione, che ‘ste figliole vengon su qua e là sguaiate che guai e se poi non dicono grazie, non sorridono o rispondono male a qualcuno per la strada o a lei a maman ci piglia lo stranguglione. Risparmiatemi lo stranguglione, vi prego, sembra dire.  Dell’educazione e dell’ottimismo. Perché a guardarsi intorno c’è di che perdere l’equilibrio, ma non vuol dire che se il gioco si fa duro e la notte gli occhi si spalancano perché come si fa a dormire e a non pensare a quel che succede, ecco, non vuol dire che non si possa guardare quella realtà con gli stessi occhi ma da un altro punto di vista. Come quando una piccola fidicina treenne incontrò il suo primo morso di cane e ci rimase male, lei, cresciuta nella versione più ecumenica e animalista possibile. Lei, che se avesse incontrato un coccodrillo gli avrebbe fatto una carezzina. Ecco, lei, a quel canino piccolo, brutto e isterico che già l’aveva morsa e le si stava riavvicinando con fare aggressivo, rispose con una frase che fu poi assunta a filosofia fidicina e se avessero uno scudo di famiglia ce la scriverebbero sopra, insomma, lei piccinina alzò il suo ditino indice treenne e gli disse ”Ora basta, eh?”. Non pianse, non scappò, non lasciò che l’isteria di quel toporagno con le zampe storte la contagiasse. Ecco, così i fidicini rispondono alle difficoltà della vita, con un gentile ”Ora basta, eh?”. Anche alla neve, ora basta.

E però adesso pare che non funzioni, perché questa neve non smette di scendere e conferma l’intuizione mammesca che col significato buono della vita spesso si debba giocare a nascondino, anche. A cercarlo peró, non a nasconderlo. Dove sei? E alzare la tovaglia che magari si nasconde sotto il tavolo, o dentro un cassetto o invece sta bene in primo piano sul comó e solo noi non ci s’era fatto caso. Se poi uno ci mette la stanchezza di star dietro emotivamente giorno e notte a tre figlioli, be’, capita persino che quel significato buono lo intraveda sopra la ubahn, nell’attimo però in cui si chiudono le porte e ti lascian fuori, portandoselo via. Son casi in cui il pensiero parte in automatico sulla speranza, sono epifanie che ricompaiono, in teoria, basta far loro spazio. E in quel gioco del nascondino si fa anche ordine, si fa. Che capace sotto quel tavolo, sotto quella tovaglia, si ritrovi un calzino, un libro, un qualcosa di smarrito. E l’ordine fa spazio al sole, che prima o poi arriva.

Educazione e ottimismo, anche se fuori c’è la neve e bagna le scarpe e si scivola e i fidicini hanno esaurito le forze per il freddo e per l’inverno. Anche se la mattina le ragazze si alzano e si battibeccano e la mamma deve subito intervenire con le sue massime gandhiane al balsamo di calendula, ma con la cofana di capelli incolti a parrucca pare piuttosto una scimmia e prima del caffè, oddio, non è per nulla credibile.

Ma che meraviglia! Visto che bella la neve oggi? disse ella

Nevica! WOW!!!! risposero loro

Ecco, a volte funziona. Santa infanzia.

Dell’iscuola de Berlino

La pargola grande ha fatto l’Anmeldung al Ginnasio Francese. La stessa pargolotta che ha quasi 10 anni e quando si tratta di dubbi linguistici ha la risposta esatta. Lei. La stessa che vorrebbe tanto un telefonino, per dire, lo vorrebbe per giocarci e quindi non lo avrà MAI. Le dice la mamma, una fascista della peggio specie, una fascista russa ferma al 1835 e con una baionetta al posto dello sguardo, ‘na povera matta che cova sentimenti bombaroli per tutto quello che fuoriesce dalla bidimensione dalla carta. Che se solo le dicesse, ma mamma, se io avessi un telefonino quando devi scrivere qualcosa mi potresti chiamare e ti darei una mano. Ecco, glielo comprerebbe subito, un telefono televisore pure, che così vede anche l’impaginazione.  Vabbè. Questa Anmeldung è stata un colloquio con il distintissimo Signor Direttore Tedesco e una caruccissima Signora Insegnante Francese. Due loro e due loro. I due la interrogavano, le chiedevano e lei rispondeva. Le facevano domande più o meno serie, più o meno simpatiche, ma tutte crudelmente domande de nozioni. Cioè, lo sai questo? E questo? Lo sai? Ah, lo sai, eh? La ragazza sedeva e rispondeva. Ascoltava, seguiva e parlava con loro. A un certo punto mammina sua aveva i moccoloni al naso e i goccioloni all’occhi e avrebbe tanto voluto un pulsante di stand by per scoppiare in un pianto dirotto di commozione, che la figliolina sua stava discutendo del significato di una parola che lei nemmeno la sapeva, quella parola lì. Per fortuna la mamma galleggiava ignorata. Meno male.

Meno male e finalmente, pensava la mamma, relegata al posto che ogni mamma dovrebbe sognare per se stessa nella scuola dei suoi figlioli, l’angolo. Perché la mamma rimane la mamma. La mamma fa la mamma. La mamma è la mamma. E lì, santoebenedettoillumedelginnasiofrancese, la mamma non contava nulla. Finalmente.

Molto gentili, molto carini, entri pure, si accomodi, ma insomma stia zitta, rimanga pure seduta accanto alla sua pupetta, che lo vediamo che l’ha accompagnata e magari le ha fatto anche queste belle treccine, no, per carità, le ha fatte la tata Tina io nemmeno so fare quelle, ecco, insomma, le avrà pure comprato ‘sto golfuccio caruccio blu, ecco magari i pantaloni glieli poteva lavare un po’ meglio che sono sudici, ma insomma, il suo lo ha già fatto, ora stia lì e non apra né bocca né altro che a noi interessa la ragazza, non lei.

Questa è la scuola che vorrebbe quella mamma lì. Che è fascista e costringe le figlie a viver lontane dalla modernità degli schermi e del tempo veloce, che la sera le fa ridere e scherzare perché non si guarda la tv perché la tv non c’è ma ci sono loro e c’è anche il fratello piccino che è meglio del migliore topo Gigio. Una mamma che non appena hanno un giorno libero le infila in un museo e del museo sviscerano ogni angolo compresi i bagni e i corridoi e alla fine vanno via, ahimé ben notate da tutti. Quella mamma lì vuole una scuola dove la mamma fa la mamma. E sembra banale, eh? Magari lo fosse. Perché per avere una scuola del genere ci vogliono degli insegnanti che fanno gli insegnanti. Non gli amici o i confidenti. Degli insegnanti che si preoccupano di quello che i ragazzini imparano e non di quanto sono sereni o rilassati. Rilassati? Ma quello sarà un problema dei genitori, no? Insegnanti che insegnano e poi DOPO fanno i corsi di teatro o di pallavvolo e i progetti e le fave e le minchie. Perché la ragazza porta a casa libri orribili e tremebondi, ha un libro di testo che pare scritto dal traduttore automatico di google e non sa raccontare né sa scrivere perché a 10 anni la maestra detta le parole e non i dettati. I dettati? No, sono troppo difficili. Una scuola senza computer! Non lo voglio il computer a scuola, perché il computer è un sistema intuitivo e a 10 anni le quattro cazzate che gli insegnate al computer le impara a casa in cinque minuti, anzi, sapete cosa? Le sa già. Non ha neanche avuto bisogno di impararle, le sapeva già. Li fanno apposta i computer così, sapete? Non c’è bisogno di imparare nulla, si sanno già le cose che servono per usarlo in maniera elementare. Mentre voi a muovere una classe di 30 ragazzini nell’aula dei computer ci mettete mezz’ora e quella doveva essere una mezz’ora di dettato. E invece di farvi fregare da qualche stronzo di rivenditore di computer che vi smercia trenta computer vecchi e inutili potevate comprare trentamila libri vecchi. Che a differenza dei computer sono ancora meglio se son vecchi. Che se un bambino a 10 anni poi non sa scrivere la mamma deve intervenire e poi interviene con tutto il suo fascismo russo, povero bimbo.

Insomma, questo ragazzino ha già una rompicoglioni patentata per mamma che se gli venisse voglia di scappare di casa avrebbe tutta la sua comprensione, ora non gliela imponete come insegnante, vi prego. Oh, ecco, e già che ci siete, allora, insegnategli qualcosa. Ma qualcosa di DIFFICILE, santocielo, le cose facili ci arrivan da sé, sono dei bambini non dei cretini.

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