Su fidicinlandia è tempo di caos emotivo, come dire, nulla di nuovo. La mamma è rientrata dopo tre splendidi giorni d’Italia e ha trovato che a casa sua c’era in atto una tragedia, con tanto di scenografie, suggeritori e virus sovrani alla biglietteria. Una maschera gentile l’ha accompagnata in platea, in quella che era giusto una pausa tra il secondo e il terzo atto. Prego, si accomodi. Il ragazzo piccinino là davanti sta calcando la scena nei panni della metamorfosi, da piccolo e tenero che la mamma l’aveva lasciato se ne sta andando, adesso, verso una terra non chiara, di chiaro c’è solo un suono, un violento, unico e impetuoso Nein! Un Carmelo Bene in miniatura. E grida. Grida, lui. Quando non grida con le lacrime la sua disperazione è perché sta lanciando a frisbee qualcosa, mele, pere, piatti, o perché sta picchiando la mamma con tutte le sue forze. Un pazzo. E se non s’esprime nell’ira di Satana è perché dorme, e allora è capace che si alzi nel cuore del sonno per baciare appassionatamente la mamma, baciarla a tutta bocca, accarezzarla coi palmi delle mani e stringersi a lei a occhi chiusi, abbandonandosi ad un amore infinito e imperituro. Una tragedia di cui lui è il solo unico eroe. Finché apre gli occhi assatanati e la vede, vede la mamma, ed è allora che si fa innocente e le chiede con candore “babbo?”, come dire te ti vedo, ma lui, lui, il mio unico amico del cuore, dov’è? Una miniatura di follia e indecisione che brandisce a spada il senso di colpa. Wow. O un altro pazzo scatenato sciolto per il mondo. E non ha ancora due anni. Le ragazze hanno un periodo di distanza, un po’ le malattie che le tengono a casa alternatamente, un po’ l’età che chiama l’una ad esser grande e responsabile e spaventa l’altra, che fosse per lei si trasformerebbe in una barbie e vivrebbe nella casa rosa di plastica, che tutte le mie amiche ce l’hanno e io no, dice. Oppure si esprime con la mamma rischiando di farle venire uno stranguglione, perché le dice cose del tipo ”mamma, io sarei davvero felicissima se ho il palazzo dei playmobil”. E la mamma, tra i congiuntivi che le friggono lo stomaco e questo senso di appagamento dell’acquisto che la ragazzina esprime, rischia il tracollo nervoso e qua e là urla, urla lungo i binari della u-bahn. La tata Tina cerca di imparare queste lingue che peró le scappano di mano e ieri stava per scrivere a un amico “vado a londra, rientro il 5, se vuoi possiamo darci appuntamento al 6, ma del prossimo anno”, così in un anno spera di essere in grado di farci due chiacchiere. Però, quando lei cucina, il ragazzino indemonato ride e le manda i baci, e tutto si aggiusta nel linguaggio della riconoscenza.
Maman annusa da più parti che la lingua russa le bussa alla schiena e stamani si è iscritta a un corso intensivo di dieci giorni, che parlarne solo una di lingue slave è un po’ come suonare il violino ma non il pianoforte. Invece le mani sul pianoforte fa sempre bene metterle, e il russo sta alle lingue slave come il piano alla musica. Come Brodskij al linguaggio, anche se poi scriveva in inglese. Appunto, violini e pianoforti. L’anno sta finendo e se solo il piccolo Maestro si togliesse la maschera di Hulk e la smettesse di urlare, su fidicin si starebbe bene. Come dire, i fidicini ce la fanno ad aiutare la mamma a svegliarsi domattina e rivivere quel primo maledetto dicembre di dieci anni fa, quando verso l’una, nel silenzio della domenica italiana, all’ora di pranzo, la sua mamma chiuse gli occhi e se ne andó. Per sempre. Raggiungendo quel ”per sempre” che è la meta del tempo che passa, in un senso unico con cui si chiude la vita di ciascuno di noi.
.
.
…………………………………..sera con Tuśka
.
.
un tempo scrivevo belle poesie,
Tuśka lo sa, perché rideva,
quando sedevo di sera
piegato sulla carta in folio.
.
aggrottavo la fronte, strappavo la carta,
dicevo „Tuśka, girati,,
non guardarmi, perché non posso
agguantare una poesia se il tempo passa,
.
o meglio mia cara addormentati,
soltanto per caso non sognarmi,
e copri, per piacere, perché è brutto,
i tuoi seni, seppure con le braccia“.
.
Tuśka rideva e oscillava
con scherno lo sguardo „Ah, Tadeusz,
vedrai, ti mancherò
e non ti uscirà alcun verso senza di me.
.
E pregherai allora invano
”restituitemi ancora il sorriso di Tuśka”
e perderai la fede in un tempo passato,
pensando che fu solo un sogno“.
.
”o una poesia” – dissi, concludendo
la mia poesia sul tempo che passa.
.
.
Tadeusz Borowski, ”Z pamiętnika”